Lo sguardo discreto dell'HAIKU



di Massimo de Magistris


Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), 
ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.
Nan-in servì il tè. 
Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. 
Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi:
“E’ ricolma. Non ce ne entra più!”
“Come questa tazza,” disse Nan-in “tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. 
Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?”.

Questo famoso racconto Zen ci introduce perfettamente nello spirito della poesia haiku (forma contratta di haikai no ku – “verso di un poema a carattere scherzoso”), stile compositivo giapponese che affonda le proprie radici nel periodo Muromachi (1392-1573) distinguendosi per brevità, concisione, immediatezza e per una metrica stringente divisa in tre semplici strofe di 5-7-5 sillabe e avente sempre al suo interno riferimenti al mondo della natura.
Senza addentrarsi nella tecnica di composizione degli haiku né analizzando gli sviluppi e i cambiamenti che nel corso della storia hanno modificato l’originalità di queste composizioni, è però  possibile cogliere qualcosa dello spirito che anima questi versi studiandone le analogie con lo stesso spirito Zen dal quale attingono significato e ispirazione.
Come molti sanno, lo Zen giapponese (禅, termine che veicola l’equivalente sanscrito dhyāna, "visione") fa parte della tradizione buddhista Mahayana (Grande Veicolo) e ha sviluppato un percorso specifico che mira ad esaltare la comprensione intuitiva non fondata su concetti, testi sacri, opinioni che al massimo descrivono la realtà o la verità delle cose senza però farle conoscere direttamente. Lo Zen vuole promuovere una conoscenza viva, non razionalizzante, concettuale o nozionistica. È proprio su questa sua caratteristica che si fonda anche l’haiku: come nel buddhismo Zen, l’illuminazione (satori) è raggiunta in uno spazio che non appartiene alla logica comunemente intesa o alla conoscenza progressiva, ma in uno spazio che non deve essere contaminato dalle emozioni, dalle opinioni e dall’affermazione della propria individualità, anche nell’haiku l’esperienza più penetrante è proprio la “visione” (dhyāna) che avviene nel momento in cui il soggetto scompare, lascia il posto d’un tratto all’oggetto o all’evento senza appropriarsene lasciandolo essere per ciò che è (interessante parallelo di questo è riscontrabile nel concetto di Tzimtzum ebraico – צמצום - che significa letteralmente "ritrazione" o "contrazione" utilizzato dai cabalisti per descrivere l’ "autolimitazione" di Dio che si "ritrae" creando il mondo e lasciando libero l’essere in tutto il suo dispiegamento). L’haiku  infatti non descrive, non vuole giudicare o spiegare o comunicare necessariamente il sentimento o l’emozione, ma solamente presenta un’immagine:

Furuike ya
kawazu tobikomu
mizo no oto

Vecchio stagno
una rana si tuffa
un suono d’acqua

In questo celebre haiku di Matsuo Basho, nel tuffo della rana, l’istante che smuove l’acqua illumina tutto che improvvisamente si fa uno nella comprensione.
La ricchezza dell’istante accentua la ricchezza dell’esistenza stessa, della relazione con l’alterità, dell’intima connessione del tutto. Proprio per questo la natura nella sua manifestazione più minuta e quasi impercettibile è necessariamente l’oggetto degli haiku: le cose piccole, del mondo animale o vegetale a un primo sguardo distratto insignificanti, d’improvviso diventano luminose generando unione tra osservatore ed osservato, senza distinzioni o separazioni di sorta in un’armonia lieve e naturale, senza finzioni. Così formiche, rane, insetti, foglie cadute, fiori, gocce d’acqua sono vere e proprie epifanie irripetibili e sempre uniche.
Un altro breve racconto Zen può aiutarci a capire meglio quanto affermato:

Un uomo chiese ad un maestro:
“qual è la porta per entrare nello Zen”.
“Lo senti il mormorio del ruscello?”
“Si”
“Quella è la porta”, rispose il Maestro.

L’uomo allora si sedette in silenzio, ascoltò lungamente il ruscello, 
si fece vuoto, dopodiché si unì a lui scrivendo il suo primo haiku:

Un ruscello e il suo rumore:
Scorro con l’acqua
Tra pietre e trasparenze.

Gli haiku manifestano allora l’atteggiamento Zen per eccellenza: un’attenzione e vigilanza (la νῆψις, nepsis che anche i primi monaci cristiani praticavano e raccomandavano a tutti i fedeli) necessarie per rapportarsi con la realtà liberandosi dall’ego, dal guadagno (anche esperienziale), dall’opinione che deve essere per forza ribadita, difesa o proclamata.
E cosa può aiutarci a uscire fuori dalle pastoie interiori?

“Le cose del pino imparale dal pino, 
le cose del bambù imparale dal bambù… 
entrare nello spirito delle cose fino a intuirne l’essenza, 
questo significa imparare e ciò conduce all’unità, oltre la visione duale”. 

È ancora Matsuo Basho a suggerire che il silenzio, il vuoto interiore che diviene generativo, assume il ruolo di ascesi personale, di via rivelativa del reale capace di svincolare dall’essere piegati ai fini propri, per esistere e dispiegarsi liberamente.
Questo senso di armonia cosmica può essere allora riconosciuto solamente previo un faticoso percorso teso a una morte dell’io, proprio come già suggeriva Platone nel Fedone: “I veri filosofi si esercitano a morire”, non a opinare. Senza questa morte, ogni via di conoscenza è preclusa o ingannevole.
In questa armonia, si scorge finalmente che il “cosmo è interiore all’uomo e l’uomo è interiore al cosmo” (Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev) si supera la visione dualistica penetrando nella realtà in cui ciascuna cosa è trasparente alle altre, vive in esse e per esse.

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