di Massimo de Magistris
«Un sapiente, venuto a trovare Antonio, gli domanda:
“Padre, come potete essere così felice, essendovi privato della consolazione dei libri?”.
Antonio rispose: “Il mio libro, la mia filosofia, sono gli esseri naturali,
e quando voglio leggere le parole di Dio, questo libro è ogni giorno davanti a me».
Sulla vita di Antonio Abate
L’anno si avvia verso la sua conclusione. La luce del giorno cede sempre più ore alle tenebre in prossimità del solstizio d’inverno, convenzionalmente stabilito il 21 dicembre, la notte più lunga dell’anno. La caratteristica di giorno più breve dell’anno in termini di ore di luce, ha da tempi ancestrali, sempre conferito a questo giorno del solstizio un significato profondo in quanto «il sole, simboleggia la luce, lo spazio chiaro, lo spazio delle forme precise, in cui non è possibile nessuna confusione» (MIRCEA ELIADE, Il mito della reintegrazione, p.33).
Proprio mentre l’oscurità sembra trionfare, questa però improvvisamente soccombe al ritorno della luce solare che torna a imporsi sulle tenebre. Le giornate si allungano, il solstizio invernale apre ai giorni che seguono, i quali si distendono diventando sempre più luminosi fino al solstizio d’estate, quando il ciclo solare riprenderà il suo consueto giro di ritorno.
Per l’uomo armonicamente inserito nei ritmi cosmici, osservando una natura minacciata delle tenebre e dalla temporanea, apparente “morte”, l’esperienza della luce del sole nell’anno aveva un’importanza capitale per il dispiegamento della vita stessa, e quindi il punto del solstizio d’inverno assumeva un significato unico che lo distinguerà da tutti gli altri punti del corso annuale del sole. In questo giorno infatti, il sole, giungendo nel suo punto più basso, dava l’impressione di spegnersi, abbandonare le terra, scendere negli abissi, “morire”, mentre ecco che invece improvvisamente, con nuovo vigore si riprende, si rialza e risplende, quasi come in una rinascita o una resurrezione. Proprio per questo, da sempre, il solstizio ha rinviato al simbolo della nascita o della rinascita di una divinità solare archetipica a cui l’uomo presto ha associato una ricchezza di significati oggi spesso dimenticati.
In tale simbolismo primordiale il sole inteso come “Vita”, rimanda anche all’uomo: come nel suo corso annuale il sole muore e rinasce, così anche l’uomo ha il suo “ciclo” interpretabile però non solo biologicamente, ma metafisicamente: deve morire e risorgere per ricollocarsi nell’armonia cosmica di cui è parte. Mentre il sole discende nella “Terra”, nelle “Acque”, nel “Monte” (ciò in cui, nel punto più basso del suo corso, il sole sembra immergersi), per ritrovare nuova vita l’uomo «cosmicizza l'intera sua esperienza, omologandosi con i ritmi che dominano l'universo (il sole e la luna), ma, dopo che ha realizzato questa cosmizzazione, egli tende a unificare il sole e la luna, cioè a totalizzare l'intero Cosmo, rifacendo l'unità primordiale precedente alla creazione» (MIRCEA ELIADE, Il mito della reintegrazione, p.64).
“Risorgendo”, il sole richiama anche “l’albero” che sorge e sembra ciclicamente morire nell’inverno con la caduta delle foglie, che a sua volta è simboleggiato dall’Uomo cosmico con le “braccia alzate”, simbolo di resurrezione, di reintegrazione nella Realtà.
E così può riprendere inizio un nuovo ciclo, “l’anno nuovo”, la “nuova luce”. È il «rinnovamento del mondo per mezzo del rito della rianimazione del fuoco all’epoca del solstizio d’inverno, rinnovamento che equivale a una nuova creazione (MIRCEA ELIADE, Il mito dell’eterno ritorno, p.73).
Vediamo infine una panoramica comparata sulle celebrazioni di questo giorno così speciale (dal sito edizionimediterranee.net)
Alcune tradizioni celebrano la morte del Vecchio Sole e la nascita del Sole Bambino, come nell’antica Roma dove tra il 21 e il 25 dicembre si festeggiava Mithra e la rinascita del sole con il dies natalis solis invictis – il giorno del natale del sole invitto. Similmente nei paesi germanici e scandinavi si celebrava Balder il Buono, il migliore tra gli Dei, figlio luminoso di Odino-Wotan e vittima innocente, ucciso con l’inganno e poi rinato l’ultimo giorno per salvare il mondo. Per restare nel nord dell’Europa il giorno del solstizio si festeggiava Freyr della stirpe dei Vani, Dio della fecondità, cognato di Odino e fratello di Freyia. Nell’Europa settentrionale il solstizio celebrava anche la Dea Sól, legata a un culto arcaico, che guida i cavalli del carro solare “perché illuminasse i mondi”. Sempre in un ambito nord europeo, ricordiamo le feste druidiche del risveglio del Sole, Alban Arthuan ovvero la festa della Luce di Artù. Nella mitologia nordica, il solstizio invernale coincideva anche con la prima neve che rappresentava un augurio per i raccolti primaverili. Se ci spostiamo un po’ più a sud rimanendo solo in ambito europeo scopriamo che nell’antico Egitto erano questi i giorni in cui si festeggiava il dio Horus. Sempre gli antichi romani dal 17 al 23 dicembre (e poi fino al 25) si dedicavano ai Saturnalia. Gli antichi greci al solstizio invernale officiavano la nascita di Dioniso. Il simbolismo della notte più lunga dell’anno era già quindi evidente e sentito ben prima della conversione dei popoli nord europei e prima che papa Giulio I (337-352) stabilisse al 25 dicembre la data della nascita del nuovo sole, “Cristo” (cf. Lc 1,78: «per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge»).
La festa di Yule è anche diffusa in tutta Europa ma sono soprattutto i paesi situati al nord a vivere da sempre con maggiore intensità il solstizio invernale, luoghi dove la notte è lunga al punto da durare un semestre intero nell’arco dell’anno. Il rituale della tradizione è una veglia celebrata dal tramonto all'alba per assicurare la rinascita del Sole dopo la notte più lunga dell’anno. I miti nordici narrano del vischio pianta sacra del solstizio invernale. I druidi associavano il vischio alla folgore celeste, diretta emanazione della divinità. Questa pianta è un semiparassita che cresce privo di radici sulla sommità delle querce, albero sempreverde simbolo dell’eternità. La sacralità del vischio è vantata da una nutrita serie di racconti e leggende ed è sempre collegata all’Inverno, quando le sue fronde e le bacche simili a perle assumono i pallidi colori della Luna. Antiche leggende raccontano l’eterno conflitto tra il re della Quercia che ospita il vischio e il re dell’Agrifoglio. I due re alternano la vittoria e tale rappresentazione rimanda al ciclo vegetale dell’anno. Entrambi i sovrani ritraggono due aspetti della stessa divinità in lotta per la supremazia di una natura sull’altra, con la particolarità che la vittoria è inversa: la Quercia, baluardo del regno del semestre di luce, è sacrificata in Estate, siccome il Solstizio celebra l’inizio della discesa solare. L’Agrifoglio, vessillo del semestre dell’oscurità, soccombe in Inverno poiché è il periodo in cui è la luce a emergere dalla notte.
Ancora oggi ritroviamo come principio beneaugurante il rametto di vischio sopra gli usci delle case nelle celebrazioni del nostro capodanno. L’albero di Yule è diventato il nostro albero di Natale, simbolo della vita che resiste alla rigida oscurità dell’Inverno. In epoca precristiana nel periodo più oscuro dell’anno l’albero era arricchito con candele e offerte di frutta – o alimenti che identificano la rigenerazione – che venivano appesi ai suoi rami sempreverdi. Esporre l’albero significava rivendicare un rapporto con le entità del bosco, propiziava la fertilità e ricordava agli uomini che, per sopravvivere e cogliere il mistero della rinascita, era sempre necessario essere in armonia con l’universo.
Commenti
Posta un commento