Nuovi vizi capitali: il consumismo





"L'umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via
 tratta anche se stessa come un'umanità da buttar via".

G. Anders, L'uomo è antiquato, vol. II: Sulla distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale (1980), p. 35.

Perché il consumismo è un vizio? Un vizio nuovo, perché sconosciuto alle generazioni che ci hanno preceduto. Non è forse vero che il consumo sollecita la produzione, e l'incremento di produzione aiuta la crescita che tutti i paesi assumono come indicatore di benessere e si allarmano quando oscilla intorno allo zero?
Perché il consumismo è un vizio se è vero che mette alla portata di tutti una serie di scelte personali che un tempo erano riservate solo ai ricchi, una varietà di alimenti che i nostri vecchi si sognavano, possibilità d'abbigliamento sconosciute alle generazioni precedenti, una serie infinita d'elettrodomestici che riducono la fatica in casa regalando, a chi ci vive, tempo libero per altre e più proficue attività? Perché il consumismo è un vizio?
Perché crea in noi una mentalità a tal punto nichilista da farci ritenere che solo adottando, in maniera metodica, e su ampia scala, il principio del consumo e della distruzione degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale, esercizio della libertà e benessere. Ma vediamo le cose più da vicino.

1. La circolarità produzione-consumo. È noto che "produzione" e "consumo" sono due aspetti di un medesimo processo, dove decisivo è il carattere circolare del processo, nel senso che non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci.
All'inizio e alla fine di queste catene di produzione (di merci e di bisogni) si trovano gli esseri umani, instaurati come produttori e come consumatori, con l'avvertenza che il consumo non deve essere più considerato, come avveniva per le generazioni precedenti, esclusivamente come soddisfazione di un bisogno, ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. Là infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci "hanno bisogno" di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno sia "prodotto".
A ciò provvede la pubblicità, che ha il compito di pareggiare il nostro bisogno di merci con il bisogno delle merci di essere consumate. I suoi inviti sono esplicite richieste a rinunciare agli oggetti che già possediamo, e che magari ancora svolgono un buon servizio, perché altri nel frattempo ne sono sopraggiunti, altri che "non si può non avere". In una società opulenta come la nostra, dove l'identità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sono sostituibili, ma "devono" essere sostituiti, ogni pubblicità è un appello alla distruzione.

2. Il principio della distruzione. Si tratta di una distruzione (ma se l'espressione vi pare troppo forte usiamo pure la parola "consumo") che non è la fine naturale di ogni prodotto, ma il suo fine. E questo non solo perché altrimenti si interromperebbe la catena produttiva, ma perché il progresso tecnico, sopravanzando le sue produzioni, rende obsoleti i prodotti, la cui fine non segna la conclusione di un'esistenza, ma fin dall'inizio ne costituisce lo scopo. In questo processo la produzione economica usa i consumatori come suoi alleati per garantire la mortalità dei suoi prodotti, che è poi la garanzia della sua immortalità.
Come condizione essenziale della produzione e del progresso tecnico, il consumo, costretto a diventare "consumo forzato", comincia a profilarsi come figura della distruttività, e la distruttività come un imperativo funzionale dell'apparato economico. Il "rispetto", che Kant indicava come fondamento della legge morale, non è funzionale al mondo dell'economia che, creando un mondo di cose sostituibili con modelli più avanzati, produce di continuo "un mondo da buttar via". E siccome è molto improbabile che un'umanità, educata alla più spietata mancanza di rispetto nei confronti delle cose, mantenga questa virtù nei confronti degli uomini, non possiamo non convenire con Gunther Anders per il quale: "L'umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via tratta anche se stessa come un'umanità da buttar via".
Si conferma così il tratto nichilista della nostra cultura economica che eleva il non-essere di tutte le cose a condizione della sua esistenza, il loro non permanere a condizione del suo avanzare e progredire. E se le cose del mondo agli occhi di Platone apparivano scadenti perché, a differenza delle idee, erano soggette al tempo e perciò transitorie, agli occhi della nostra economia la transitorietà di tutte le cose, il loro diventare obsolete ed essere superate, il loro non-durare è la condizione del loro esistere.

3. L'inconsistenza delle cose. Che ne è delle cose, della loro consistenza, della loro durata, della loro stabilità? Da sempre le cose si consumano e diventano inutilizzabili, ma nel ciclo produzione-consumo che non può interrompersi esse sono pensate in vista di una loro rapida inutilizzabilità. Infatti è prevista non solo la loro transitorietà, ma addirittura la loro "data di scadenza" che è necessario sia il più possibile a breve termine. E così invece di limitarsi a concludere la loro esistenza, la fine delle cose è pensata sin dall'inizio come il loro fine.
In questo processo, dove il principio della distruzione è immanente alla produzione, l'uso delle cose deve coincidere il più possibile con la loro usura. E se questo non è possibile per. l'intero prodotto perché nessuno l'acquisterebbe, è sufficiente che lo sia per i pezzi di ricambio, il cui costo deve essere portato a livelli tali che persino piccole riparazioni vengono a costare, se non di più, almeno come un nuovo acquisto. Se questo non basta sarà la pubblicità a persuaderci che, anche se la nostra automobile tecnicamente funziona ancora nel migliore dei modi, è il caso di sostituirla, perché "socialmente inadatta" e in ogni caso "non idonea al nostro prestigio".

4. Il dissolvimento della durata temporale. Il tratto nichilistico dell'economia consumistica, che vive della negazione del mondo da essa prodotto perché la sua permanenza significherebbe la sua fine, destruttura nei consumatori la dimensione del tempo, sostituendo alla durata temporale, che è fatta di passato, presente e futuro, la precarietà di un assoluto presente che non deve avere alcun rapporto col passato e col futuro.
E allora oltre alla produzione forzata del bisogno, ben al di là dei limiti della sua rigenerazione fisiologica, il consumismo utilizza strategie, come ad esempio la moda, per opporsi alla resistenza dei prodotti, in modo da rendere ciò che è ancora materialmente utilizzabile, socialmente inutilizzabile, e perciò bisognoso di essere sostituito. E questo non vale solo per le innovazioni tecnologiche (televisori, computer, cellulari), o per il guardaroba femminile (e oggi anche maschile), ma, e qui precipitiamo nell'assurdo, anche per gli armamenti.
Se un armamento resta inutilizzato per mancanza di guerre e quindi di potenziali acquirenti, o si inventano conflitti per "ragioni umanitarie", o si producono armi "migliori" che rendono obsolete quelle precedenti. Anche se si fatica a capire in che cosa consista il "miglioramento" in una situazione in cui, con le armi a disposizione, già esiste per l'umanità la possibilità di sterminare se stessa in modo totale. Che senso ha in questo caso mettere sul mercato qualcosa di "meglio"?

5. La crisi dell'identità personale. Viene ora da chiedersi: quali sono gli effetti della cultura del consumismo sulla costruzione e sul mantenimento dell'identità personale? Disastrosi. Perché là dove le cose perdono la loro consistenza, il mondo diventa evanescente e con il mondo la nostra identità. È infatti fuorviante considerare la cultura del consumo come cultura dominata dalle cose, perché nel consumo le cose si fluidificano. Prive di consistenza, di durata, e al limite di utilità, le cose esistono solo per essere consumate e, dove resistono al consumo, per essere sostituite da prodotti "nuovi e migliori" che l'innovazione tecnologica porta con sé.
In un mondo dove gli oggetti durevoli sono sostituiti da prodotti destinati all'obsolescenza immediata, l'individuo, senza più punti di riferimento o luoghi di ancoraggio per la sua identità, perde la continuità della sua vita psichica, perché quell'ordine di riferimenti costanti, che è alla base della propria identità, si dissolve in una serie di riflessi fugaci, che sono le uniche risposte possibili a quel senso diffuso di irrealtà che la cultura del consumismo diffonde come immagine del mondo.
Là infatti dove un mondo fidato di oggetti e di sentimenti durevoli viene via via sostituito da un mondo popolato da immagini evanescenti, che si dissolvono con la stessa rapidità con cui appaiono, diventa sempre più difficile distinguere tra sogno e realtà, tra immaginazione e dati di fatto.
Declinandosi sempre più nell''apparire, l'individuo impara a vedersi con gli occhi dell'altro. Impara che l'immagine di sé è più importante delle sue capacità. E dal momento che verrà giudicato da chi incontra in base a ciò che possiede e all'immagine che rinvia, e non in base al "carattere" come accadeva nelle epoche non consumistiche, tenderà a rivestire la propria persona di teatralità, a fare della sua vita una rappresentazione, e soprattutto a percepirsi con gli occhi degli altri, fino a fare di sé uno dei tanti prodotti di consumo da immettere sul mercato.
Priva di un mondo costante, durevole e rassicurante nella sua solidità, l'identità diventa incerta e problematica, non perché l'individuo non appartiene più a precise categorie sociali, ma perché non abita più un mondo stabile e dotato di esistenza indipendente. Là infatti dove il mondo è di continuo creato e ricreato e gli oggetti durevoli sono sostituiti da prodotti "usa e getta", destinati all'obsolescenza immediata, il consumatore considera il mondo come un riflesso dei suoi desideri e delle sue paure.
Non più una realtà solida, durevole e palpabile, ma una vita psichica vissuta senza un senso costante di sé, che naufraga in una serie di riflessi fugaci nello specchio dell'ambiente circostante. Qui la differenza tra realtà e virtualità diventa sempre più vaga, come vaga diventa la propria identità e indefinito lo spazio della libertà.

6. L'evanescenza della libertà. In una cultura del consumo dove nulla è durevole, la libertà non è più la scelta di una linea d'azione che porta all'individuazione, ma è la scelta di mantenersi aperta la libertà di scegliere, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti.
Ma là dove la scelta non produce differenze, non modifica il corso delle cose, non avvia una catena di eventi che può risultare irreversibile, perché tutto è intercambiabile: dalle relazioni agli amanti, dai lavori ai vicini di casa, allora anche i rapporti fra gli uomini riproducono alla lettera i rapporti con i prodotti di consumo, dove il principio dell'"usa e getta" regola sia le relazioni matrimoniali sia le relazioni senza impegno.
Dando la falsa impressione di rifornire gli individui di mondi possibili, di identità proteiformi e di scelte sempre reversibili, la cultura del consumo diffonde, nello sfarfallio delle possibilità, quella illibertà che è poi l'astensione dalla scelta, tipica nel mondo del conformismo. Siccome non è connessa a immagini di oppressione, questa forma di illibertà non è assolutamente avvertita, e la deprivazione che comporta non è neppure lontanamente accompagnata dalla sensazione di essere deprivati.

7. La politica come consumo. La cultura del consumismo non investe solo l'identità personale e la libertà dei singoli, ma anche la vita pubblica nella sua espressione più alta che è la politica, dove i sondaggi svolgono la stessa funzione delle indagini di mercato per identificare i gusti, le tendenze, i capricci del "consumatore sovrano".
In politica, infatti, come nell'industria, i sondaggi, le campionature, le valutazioni, create originariamente per registrare le opinioni, servono oggi per definire una norma statistica che ha come scopo quello di escludere opinioni impopolari dalla discussione politica, senza alcun riferimento al loro merito, ma, come accade per le merci, semplicemente sulla base della loro dimostrata mancanza d'attrattiva.
In questo modo chi governa incanala entro i propri disegni l'input popolare che già ha provveduto a formare con i mezzi di comunicazione, dove la pubblicità politica sempre meno si distingue dalla pubblicità delle merci, per cui i sondaggi, lungi dal sondare l'opinione pubblica, sondano di fatto la capacità di persuadere dei mezzi di comunicazione, con conseguente riduzione della democrazia a esercizio di scelte di consumo.

Che fare? Nulla. Perché l'identità personale a cui fare appello per arginare gli inconvenienti del consumismo non c'è più, essendo stata a sua volta risolta in un insieme di bisogni e desideri programmati dal mercato.

A differenza dei vizi capitali che segnalano una "deviazione" della personalità, i nuovi vizi ne segnalano il "dissolvimento", che fra l'altro non è neppure avvertito, perché investe indiscriminatamente tutti. I nuovi vizi, infatti, non sono personali, ma tendenze collettive, a cui l'individuo non può opporre un'efficace resistenza individuale, pena l'esclusione sociale.

E allora perché parlarne? Per esserne almeno consapevoli, e non scambiare come "valori della modernità" quelli che invece sono solo i suoi disastrosi inconvenienti.


da I vizi capitali e i nuovi vizi, di Umberto Galimberti

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