Ambiente e giustizia sociale: non si è fatto abbastanza. Intervista a Mons. Domenico Pompili

 



«L’ecologia non è “una” delle questioni»: bisogna superare questa «riserva mentale», a causa della quale si tende a ignorare che ormai la cura del creato è strettamente legata alla giustizia sociale. Per la quale non si è fatto abbastanza. Monsignor Domenico Pompili, vescovo di Rieti e amministratore apostolico di Ascoli Piceno, sa bene come il territorio, la terra, l’ambiente possano soffrire a seguito delle azioni umane. Dopo il sisma che nel 2016 ha colpito il Centroitalia, si è confrontato con la durissima realtà di intere comunità azzerate dalla distruzione, di relazioni sociali non recuperabili, di una ricostruzione lenta e difficile. Per questo, si è fatto carico di avviare progetti che mettono insieme cura dell’ambiente e mondo produttivo, quella sinergia che ora tutti vedono strategica nel costruire l’unico futuro possibile. Esempio, più di due anni fa, l’intuizione di favorire l’incontro di persone e gruppi impegnati a dare attuazione concreta ai principi contenuti nell’enciclica «Laudato si’».


Eccellenza, a marzo 2018 è stata avviata la rete delle Comunità Laudato si’. A che punto siamo?


Fino a questo momento, a poco più di 2 anni dall’avvio di questo movimento, si sono costituite circa sessanta Comunità, diffondendosi in quasi tutto il territorio nazionale — da nord a sud, isole comprese — e non solo. Dopo le recentissime adesioni da Venezia, Mantova, Crotone, Lodi, merita infatti di essere menzionata anche la comunità internazionale costituitasi fuori dall’Italia, a Brasilia. Quest’ultima, nonostante la distanza dal resto delle altre realtà, è di forte ispirazione per l’intera rete delle Comunità. Il suo attivismo in difesa dell’habitat ambientale (dalla foresta amazzonica al cerrado), che proprio in Brasile è al centro di gravi conflitti, ci ricorda il valore dell’impegno concreto per il proprio contesto di prossimità, rispondendo al tempo stesso a quel legame locale/globale per cui ogni azione va ricondotta nella visione di una sola casa comune.


Quali tendenze, quali suggerimenti emergono, a partire da questi mesi di esperienza?


Se all’avvio di questa esperienza la forte convinzione degli aderenti, ispirati dalla lettura della Laudato sì, era tradita da una qualche incertezza organizzativa, parallelamente con la crescita delle comunità si può riscontrare una maggiore capacità di interazione e di condivisione tra le realtà territorialmente vicine, oltre che un crescente radicamento nei rispettivi contesti locali in cui le Comunità vengono riconosciute “esperienze virtuose”. Questa crescita le rende vere animatrici e promotrici dei valori dell’enciclica.


La pandemia ha messo ancora più in evidenza la necessità di una riformulazione del rapporto fra uomo e creato. Un aspetto che invece appare ancora subordinato è quello della giustizia sociale. Si sta facendo abbastanza?


Non ancora purtroppo. Anche perché c’è da superare una riserva mentale, secondo cui l’ecologia sarebbe “una” delle questioni. Per contro, la provocazione di papa Francesco sulla questione più profonda del nostro tempo è la seguente: l'idea che ha alimentato la crescita degli ultimi secoli - quella secondo cui il semplice perseguimento dell'interesse individuale e la nostra capacità tecnica sono sufficienti per creare ricchezza collettiva — si rivela sempre più inadeguata. Al punto in cui siamo, è necessario un cambio di passo. Abbiamo bisogno di ricomporre su basi nuove la possibilità di espressione dell'io con la cura del contesto circostante; l'organizzazione dei sistemi tecno-economici con le esigenze dell'ecosistema; le nostre certezze scientifiche con lo spazio del mistero. Nel lungo periodo, la crescita economica sta in piedi solo in rapporto allo sviluppo — umano, tecnologico, istituzionale, culturale, sociale — della società nella sua interezza.


Come evitare il pericolo che alle grandi dichiarazioni di principio non facciano seguito fatti concreti?


Occorre superare l’esonero della responsabilità che induce a ritenere il progresso un processo rettilineo, che va dal meno al più, in modo automatico. Dietro al “sovranismo” che si è diffuso come un virus, in realtà, si nasconde la delusione amara di una generazione di fronte alla globalizzazione che non ha mantenuto le sue promesse. Ci vuole, in effetti, oltre la tecnologia, anche la sapienza umana per garantire che l’innegabile crescita della ricchezza si redistribuisca equamente. Non esiste solo la giustizia commutativa, ma anche quella distributiva, insegnavano già i medievali, e ancor prima Aristotele.


L’impostazione generale è quella di “partire dal basso”, dalle comunità appunto, dal micromercato. Tuttavia, è realistico pensare di trasformare il mondo (economico) senza un’intesa con i grandi attori internazionali, con le multinazionali?


C’è una evidente distanza tra il livello decisionale alto e quello basso, tra i vertici e i cittadini. Ma se noi crediamo che l’homo sapiens europeo vale più dell’homo oeconomicus dei mercati finanziari, allora vale la pena di impegnarsi nel cammino della transizione ecologica. La vicenda in corso della pandemia oltre che una colossale emergenza è pure la spia di un malessere profondo rispetto ad una società che riscopre drammaticamente valori lungamente disattesi: la necessità di un sistema sanitario nazionale efficiente, il bisogno di un serio investimento educativo, la ricerca di una fiducia sociale. Dopo il covid, quando finalmente ne usciremo, ci vorrà un’azione concertata per ripensare la salute, il lavoro, la scuola, la comunicazione, la politica. E, da ultimo, ma non per ultimo, la stessa esperienza della fede.


Quale è la chiave della trasformazione?


La chiave è una svolta culturale che preluda ad una nuova economia, in grado di tornare al servizio dell’uomo. Un’economia che sia finalmente in grado di tornare a puntare sugli investimenti, che ricerchi la coesione sociale e si concentri sulla valorizzazione delle capacità personali. La chiave della trasformazione, insomma, è un mix diverso, e migliore, tra iniziativa individuale, ruolo delle istituzioni e sviluppo sociale.


Siamo tutti d’accordo sul fatto che il concetto di benessere sia mutato, partendo dal mero aspetto economico per arrivare a una dimensione olistica. Tuttavia, c’è il sospetto che un benessere così immaginato sia appannaggio solo delle società più ricche, per le quali l’esigenza di beni primari è meno pressante. In molte parti del mondo si fanno guerre per l’accesso all’acqua, alle medicine, a seguito delle carestie… In che modo il mondo “sviluppato” può conciliare le sue esigenze con quello che lo è meno?


Il mondo cosiddetto “sviluppato” deve ritrovare la consapevolezza nitidamente espressa da Paolo vi nella Populorum progressio e cioè la categoria della inter-dipendenza. Alla fine degli anni ’60 si fronteggiavano due teorie: quella della dipendenza dei paesi poveri da quelli ricchi e quella della indipendenza dei paesi poveri da quelli ricchi. Entrambe hanno dato origine a movimenti sociali e rivoluzioni politiche, ma lo sviluppo è tutt’altro che raggiunto. Solo l’interdipendenza offre uno sguardo realistico sulla realtà. C’è bisogno di garantire uno sviluppo sostenibile nel Terzo mondo ed una politica di sicurezza naturale nel Primo mondo. Ciò che appare sempre più necessaria è una comune “politica della terra” ed un mercato mondiale ispirato ai principi dell’ecologia. Anche perché — come il coronavirus insegna — non ci sono barriere o differenze che tengano di fronte a fenomeni globali.


da osservatoreromano.va

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